Domenica 22 Agosto ’21, la Santa Messa sarà celebrata alle ore 8.30 nella chiesa di S. Pietro.
Brani della XIII Domenica dopo Pentecoste:
Asperges me | Kyriale pag. 6 |
Kyrie – Gloria – Sanctus – Agnus Dei (Missa XI Orbis factor – In Dominicis per Annum) | Kyriale pag. 46 |
Credo I | Kyriale pag. 67 |
Communio – Pange lingua | Cantus Selecti pag. 270 |
Finale – Salve Regina |
Dall’archivio: Omelia della XIII Domenica dopo Pentecoste 2012
(Gal 3,16-22; Lc 17,11-19)
26 agosto 2012
Che buono fu Gesù a guarire i dieci lebbrosi! Quei malati, tenendosi a distanza – dice il Vangelo – perché era proibito a dei lebbrosi avvicinarsi alla gente, gli gridarono: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”, e Gesù ne ebbe pietà, e li guarì.
La lebbra di quei lebbrosi, nei commenti dei Padri della Chiesa e di tutti gli autori spirituali, è vista come il simbolo e l’immagine del peccato. Noi siamo lebbrosi, il peccato ci rovina del tutto; siamo ricoperti di peccati. Il Salmo dice: “Non c’è in me nulla di sano, nulla è intatto nelle mie ossa per i miei peccati. Le mie iniquità hanno superato il mio capo; fetide e purulente sono le mie piaghe a causa della mia stoltezza, sono tutti infiammati i miei fianchi, nella mia carne non c’è più nulla di sano” (Sal 38, 5-8). Siamo più peccatori di quanto pensiamo di esserlo. Non per niente un altro salmo ci fa dire: “Le inavvertenze chi le discerne? O Dio, assolvimi dalle colpe che non vedo” (Sal 19,13). Pecchiamo, di fatto, sbagliamo e offendiamo Dio e i fratelli più di quanto ci accorgiamo e abbiamo consapevolezza di farlo. Siamo spiritualmente lebbrosi.
Chi ci toglierà da questa situazione, da questa condizione? Noi da soli, o un Altro? Questa è la domanda a cui l’apostolo Paolo dà risposta impiegando due delle sue grandi lettere, la lettera ai Galati e la lettera ai Romani.
La prima lettura che la liturgia di questa domenica ci offre è un brano della lettera ai Galati, in cui Paolo, con un linguaggio e un procedere nel discorso tipico dei rabbini ebrei, dice: Dio ha promesso al patriarca Abramo che tramite un suo discendente avrebbe dato a tutta l’umanità una particolare benedizione e la salvezza. Questo discendente di Abramo è Gesù. Gesù è la salvezza del mondo, il depositario della benedizione. Ora la promessa di Dio fatta ad Abramo non può andare a vuoto; Dio mantiene le sue promesse, e quindi è Gesù la salvezza dell’uomo.
Quattrocentotrenta anni dopo la promessa fatta ad Abramo – continua Paolo – Dio diede ad Israele e all’umanità la legge di Mosè, i dieci comandamenti. Ma questi dieci comandamenti non sono capaci di salvarci, per il semplice motivo che noi non riusciamo ad osservarli. Se li osservassimo, saremmo, sì, salvi, giusti davanti a Dio; ma non riusciamo ad osservarli e continuamente li trasgrediamo; per cui la nostra salvezza – conclude san Paolo – non viene dalla legge, dai dieci comandamenti, ma viene da Cristo, che gratuitamente ci ha redenti. Resta, anche dopo la promulgazione della legge, quindi, che la salvezza ci viene da Cristo.
Paolo ha detto sul finale della lettura che abbiamo ascoltato: “Se la legge fosse capace di darci la salvezza, noi saremmo salvi grazie alla legge; ma la Scrittura dice (e noi potremmo aggiungere: anche la nostra esperienza dice) che siamo tutti peccatori e trasgressori della legge, e quindi la salvezza non ci può venire dalla legge, ci deve venire da altrove, ci viene da Cristo, che con la sua redenzione ci ha salvati”.
Alla base di tutto questo ragionamento, che potrebbe sembrarci una elucubrazione filosofica ed astrusa, sta una verità e una realtà molto importante, che tocca in profondità tutti noi, tocca l’essenza di ogni uomo, tocca il nostro modo di concepirci, e il nostro modo di impostare il rapporto con Dio.
Chi siamo, in fondo, noi? Persone che si salvano da se stesse perché osservano la legge, e quindi possono dire a Dio: sono a posto, ho diritto di stare accanto a te, tu mi devi accogliere; non ho, in fondo, bisogno di te perché mi salvo da me, e so provvedere al mio destino ultimo da me? O siamo persone bisognose di essere salvate, persone deboli, fragili, peccatrici, destinate alla perdizione, e diciamo pure all’inferno, se un altro, se Dio, se Cristo, nella loro infinita misericordia e bontà, nella loro tenerezza e compassione verso di noi, non ci fossero venuti incontro, e continuamente non ci venissero incontro, con il loro onnipotente e salvifico amore?
Questa seconda è la nostra reale condizione. Ragion per cui il giusto atteggiamento nostro è quello dei dieci lebbrosi che gridarono a Gesù: “Gesù maestro, abbi pietà di noi”. La giusta impostazione della vita cristiana non è quella di impegnarsi con tutte le proprie forze ad osservare la legge, quasi che con la nostra buona volontà saremmo capaci di osservarla e di compierla; ma la giusta impostazione della vita cristiana è quella di chiedere a Dio la grazia e la forza di osservare la legge e di compiere il bene. Da soli non vi riusciamo, con la grazia di Dio, e solo con la grazia di Dio, possiamo riuscirvi.
Di qui la necessità della preghiera; non solo l’utilità o la convenienza della preghiera, ma la necessità della preghiera. “Senza di me non potete fare nulla”, dice Gesù (Gv 15,5); e invece con lui possiamo fare tutto; possiamo tutto con lui. “Tutto io posso in Colui che mi dà la forza”, dice san Paolo (Fil 4,13).
Abbiamo bisogno quindi di essere salvati; grande colpo al nostro orgoglio, ma anche nostra straordinaria fortuna, perché a fronte del nostro bisogno di essere salvati sta Dio che vuole salvarci, sta Dio che è il salvatore, e che non aspetta altro che noi umilmente e fiduciosamente stendiamo la nostra mano per afferrare la sua; mano, la sua, che egli ci tende per prenderci e portarci al bene, alla pace, a sé.
Don Giovanni Unterberger