Domenica 31 Luglio ’22, la Santa Messa sarà celebrata alle ore 8.30 nella chiesa di S. Pietro.
Brani della VIII Domenica dopo Pentecoste:
Asperges me | Kyriale pag. 6 |
Kyrie – Gloria – Sanctus – Agnus Dei (Missa XI Orbis factor – In Dominicis per Annum) | Kyriale pag. 46 |
Credo I | Kyriale pag. 67 |
Communio – O Panis dulcissime | Cantus Selecti pag. 20 |
Finale – Jesus dulcis memoria | Cantus Selecti pag. 38 |
VIII DOMENICA DOPO PENTECOSTE
(Rm 8,12-17; Lc 16,1-9)
(archivio di don Giovanni) 14 luglio 2013
L’amministratore, di cui ci ha raccontato Gesù nel Vangelo, si era dimenticato di essere solo un “amministratore”. Brutto errore, il suo, errore grave e deleterio, perché fu la causa della sua rimozione dall’ufficio.
Quell’amministratore si era pensato “padrone”, e aveva cominciato ad usare dei beni del suo signore come fossero beni propri. E li usò male; li usò per se stesso, per il proprio tornaconto, per il proprio interesse, seguendo la propria avidità e cupidigia. Senza ricordare e tenere conto che di quei beni, e di come egli li avesse amministrati, avrebbe dovuto rendere conto al suo padrone, al suo signore. Egli aveva pur sempre un padrone, un signore, sopra di sé.
Nel cuore dell’uomo alberga un’inclinazione, una tendenza, molto brutta; una inclinazione e una tendenza che sono come una radice profonda, una radice che è dura da togliere e da sradicare: la radice e la tendenza a possedere, a farsi padroni delle cose, ad accaparrare per sé quanto più è possibile accaparrare ed avere.
Quanti mali e quanti disordini derivano da questa tendenza! Quanti dissapori, lotte e contese, quante inimicizie e rotture di rapporti hanno alla base questo cattivo e malsano istinto! Il problema della fame nel mondo non ha forse origine da questa avvelenata radice?
La parabola che abbiamo ascoltato ci ricorda che noi siamo solo “amministratori” dei beni che Dio ci ha messo nelle mani; il padrone di tutto e di tutti resta lui. “Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti”, dice il salmo (Sal 24,1). Del Signore è tutto, perché tutto egli ha fatto e tutto egli ha creato; tutto gli appartiene; tutto è suo. Ma noi lo vogliamo fare nostro!
Mi viene in mente lo slogan delle femministe di alcuni decenni fa: “L’utero è mio, e me lo gestisco io”; uno slogan che si riferiva a un particolare e preciso ambito della vita della donna, ma che è l’emblema di una tendenza ben più generale e diffusa, presente in ogni persona, a gestire le cose in piena assoluta autonomia e indipendenza, quasi che le cose non fossero originariamente di Dio.
Il pensiero – che è poi la realtà – che siamo solo amministratori e non padroni, ci impone un serio esame di coscienza. Come gestiamo il nostro tempo? Ne disponiamo come vogliamo, secondo i nostri programmi e progetti? Senza interpellare Dio? Il nostro tempo è di Dio. È affidato a noi, sì, è messo nelle nostre mani, sì, ma resta fondamentalmente suo. Lo viviamo, lo impieghiamo per quello per cui egli ce lo ha dato? Facciamo, nel tempo, le opere che lui vuole che facciamo?
E il nostro corpo? È servo dell’anima? È gestito in castità, per relazioni amorose buone, positive, di rispetto e di dono, secondo la vocazione di ciascuno? Il Signore ci ha dato il corpo perché fossimo gli uni agli altri presenza, aiuto, servizio, conforto, comunione, e non dominio, sfruttamento, violenza.
E il dono della lingua, del parlare, come lo gestiamo? Senza pensarci più di tanto? Da padroni? Senza pensare che Dio, che ci ha dato la facoltà di parlare, ci chiede che “non esca dalla nostra bocca nessuna parola cattiva, ma solo parole buone che possano servire all’edificazione, giovando a quelli che ascoltano”, come dice san Paolo? (Ef 4,29). Senza pensare che “di ogni parola vana che avremo proferito dovremo rendere conto nel giorno del giudizio”, come dice Gesù nel Vangelo di Matteo? (Mt 12,36).
Anche i nostri beni materiali devono essere gestiti da noi come da amministratori e non come da padroni. “Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto”, andava predicando Giovanni Battista a chi andava da lui a farsi battezzare (Lc 3,11).
La dottrina sociale della Chiesa ha sempre insegnato che la proprietà privata è un diritto della persona, ma che la proprietà privata deve avere una dimensione sociale, cioè deve essere aperta, attenta, solidale e generosa verso i poveri, i bisognosi; verso coloro che versano in necessità. Questa è la volontà di Dio: che i beni della terra provvedano e bastino a tutti gli uomini della terra, per cui la proprietà privata non è più un bene assoluto quando ci fossero fratelli e sorelle in necessità. La
carità, la solidarietà, la generosità sono i criteri con cui Dio vuole che noi amministriamo i nostri beni economici, che sono, in fondo, dono suo, e non solo frutto delle nostre mani e del nostro lavoro.
L’orizzonte di chi è amministratore è l’orizzonte di chi sa che deve rendere conto a qualcuno. Noi siamo amministratori. Un giorno dovremo rispondere a Dio di come avremo gestito quanto egli ci ha dato e messo nelle mani. Sarà gioia per noi se quel giorno potremo dire: “Signore, ho fatto come volevi tu; non ho fatto mio quello che era tuo; non ho fatto da “padrone”di quanto mi ha dato, ma sono stato solo “amministratore”, un amministratore fedele.
don Giovanni Unterberger